Gianni Rodari 1969
Parlo ora della serie di quadri della guerra nel Vietnam, che testimoniano della sincerità e del coraggio con cui l’artista obbedisce alle sue visioni, e senza di cui essi rimarrebbero inspiegabili. Perché Luisa Romano non fa politica, non è una pittrice “impegnata”. I nudi e i ritratti in cui insegue un suo ideale di perfezione, perfino di eleganza, le indicano una strada che potrebbe anche essere quella della resistenza passiva all’orrore. Ed ecco che quelle visioni si allontanano, per lunghi mesi prendono il loro posto visioni impietose ed atroci. Un nome lontano – Vietnam – divenuto segno di contraddizione per tutti i popoli, agisce anche in lei con la prepotenza di una realtà immediata. Sofferenze di gente sconosciuta – donne, vecchi, uomini, bambini – le si presentano con la forza di un ordine. I lividi colori delle risaie, le rovine informi dei villaggi bombardati e bruciati, i corpi posseduti dalla paura, i morti senza nome, le luci del disastro: ecco che cosa ritrova dentro di sé, senza essersi mossa mai da Roma, forse solo per aver letto un libro, assistito a un programma televisivo, cioè nello stesso modo con cui milioni di uomini comuni si sono trovati a fare i conti con questa guerra. Si può vivere isolati e sicuri, ma non per questo ci si troverà immersi, con tutte le conseguenze, nel mondo dell’informazione. Anche mettere tra parentesi il proprio tempo può diventare una strada per scoprire la sua realtà più vera, quella che tocca tutti, da cui non c’è riparo. La solitudine, per l’artista, diventa un modo per sentire più vicini a sé tutti gli uomini, a cominciare dal più lontano, da quello che soffre di più.
Il dramma del Vietnam è vissuto da Luisa Romano con un profondo senso di solidarietà, più Leopardiano che cristiano. Non mancano i simboli, del resto involontari, della Crocefissione: in un quadro dei pali in croce, in un altro un filo spinato teso che non è se non una corona di spine srotolata. Vietnam, popolo crocefisso. Ma è Leopardiana la solitudine senza speranza in cui sono immerse quelle figure schiacciate sotto il peso dei grigi. La cieca inginocchiata non prega, il suo sguardo vuoto è una accusa. Leopardiano è l’appello alla fraternità umana davanti al dolore universale. Il Leopardi della “Ginestra”, non quello degli “idilli”.
Questa visione rimane di qua dalla denuncia dei responsabili. Improvvisamente ci si parano davanti le vittime, ma non sappiamo chi sono i carnefici. Manca assolutamente l’epopea, che è straordinaria nei documentari girati da Joris Ivens nel Vietnam del Nord. Eppure non sapremmo vedere in tutto ciò un limite. Un conto è volersi mettere “al di sopra della mischia” e fare del moralismo: Tutt’altro è mettersi dentro la mischia al livello più umile: al livello di chi soffre senza capire, addirittura della cieca che sente senza vedere e senza parlare. Scegliere la cieca è scegliere un rifiuto totale della guerra. E per un’artista aver sentito la necessità assoluta, senza possibilità di fuga, di esprimere quel rifiuto, con tutta la sua forza, è un grande atto di dedizione.